Il ciclo del grano e i mestieri
Il ciclo del grano e i mestieri antichi
Il grano ha rappresentato per Triora per lunghi secoli un bene di primaria importanza. Il frumento coltivato non solo era sufficiente al fabbisogno della Podesteria, ma veniva anche esportato in notevole quantità nelle cittadine rivierasche, fino a fare del paese il Granaio della Repubblica di Genova.
Anche il paesaggio era difficilmente immaginabile oggi: le fasce gialle di frumento maturo, intramezzate da lunghi filari di viti. A recidere gli steli erano per lo più le donne, abilissime nel maneggiare il falcetto (u vuame), ma anche a mondare il grano dalle erbacce (scerbō) e a vagliarlo (vaneō). Agli uomini erano riservati i lavori più pesanti, tra cui il trasporto dei fasci di spighe per raggrupparli in covoni.
Troviamo sui muri di questa stanza alcuni correggiati, gli strumenti più antichi utilizzati per trebbiare il grano e le biade. Il correggiato, in dialetto càuda, è costituito da due bastoni di diametro differente, lunghi circa 80 centimetri: il manfanile, in dialetto mànegu, e la vetta, in dialetto pü(r)agelu, tenuti insieme da un legaccio di cuoio denominato stralèi(r)a. Questo è a sua volta legato ad un altro pezzo di cuoio duro detto capelèi(r)a, infilato per un foro centrale nel paruzùn ovvero nella punta del mànegu.
Per trebbiare il grano, il bastone di diametro maggiore, cioè il mànegu, viene impugnato alla base con entrambe le mani, mentre si fa battere il bastone più piccolo sulle spighe, in un costante movimento rotatorio. Questo sistema è stato abbandonato con l’avvento negli anni delle macchine da trebbiatura, la cui presenza nelle aie è testimoniata nella sala dalla presenza di una trebbiatrice e di un vaglio ventilatore, utilizzati nella zona di Realdo.
Alle volte era necessario affilare il falcetto, cioè la falce messoria (u vuame), oppure quella fienaia (a foussuia). In una serie di fotografie si vede uno degli ultimi contadini, Giacumin Lanteri, mentre compie questa importante operazione. La falce, posta su di una piccola incudine (a martelaü(r)a), era percossa con un apposito martello. In verità, l’agricoltore non mancava mai di portare con sé la cote (a cueta), ponendola in un astuccio (u cué), legato alla cinghia dei pantaloni. Non appena si accorgeva che l’attrezzo non tagliava più a dovere, estraeva la cote, passandola tosto sulla lama, che ritornava ad adempiere perfettamente alle sue funzioni.
Dalla macinazione del grano, che avveniva nei mulini della valle e ancora prima direttamente nelle aie con l’uso di un mulo o di un asino che faceva ruotare un’enorme macina (u roazzu), si otteneva un’ottima farina, utilizzata per il pane rotondo di Triora, anticamente cotto nei tre forni pubblici e oggi nell’unico esistente in corso Italia.
Oltre al pane rotondo, viene preparata e cotta ancora oggi una caratteristica pagnotta con due teste, che ha tra i suoi ingredienti i semi di finocchio. È distribuita dalla Confraternita della Buona Morte al Venerdì Santo.
Per ricordare l’importanza di questo prodotto per l’economia del paese è stata ricostruita la bocca di un forno, con accanto una tavola per impastare la farina ed una lunga pala di legno (l’infornavui(r)a) per collocarvi dentro il pane.
Fra i mestieri praticati nel paese e nei suoi dintorni non va dimenticato quello del falegname; lo testimoniano qui numerosi attrezzi (pialle, martelli, morsetti) posti su un banco. Appoggiati accanto o appesi al muro sono visibili scuri e seghe a rimarcare il grande utilizzo del legno, per la costruzione di bastoni, attrezzi agricoli e cesti di ogni misura.
L’incudine posta sul ceppo di legno, infine, è il semplice ma giusto riconoscimento all’attività del fabbro ferraio, in queste zone necessariamente abile anche come maniscalco, per l’elevato numero di muli.